L’estate è finita ormai, presto torneremo a indossare calze coprenti, jeans lunghi e pesanti, calzettoni di lana e chi più ne ha più ne metta.

Uno dei principali problemi per le donne, nel periodo estivo, è la situazione talloni e piedi. Al via pedicure, impacchi con pellicola per alimenti e creme idratanti, smalto colorato.
I giornali “al femminile” pongono in vetrina i migliori prodotti e le tecniche più innovative per ottenere piedi morbidi e lisci, da sfoggiare con sandali più o meno appariscenti.
È proprio leggendo un articolo di questi che mi è balzato in mente di scrivere la mia storia di sei mesi, per dimostrare che il modo migliore per avere dei piedi belli è non usarli.

Sono paraplegica dalla notte del 10 marzo. Era la prima volta che i miei genitori mi lasciavano andare a dormire dal mio ragazzo, poiché in quei giorni a scuola si tenevano le assemblee riunite, ma a casa sua non ci siamo mai arrivati.

Dal momento che la mattina era nevicato, lui non doveva andare a lavorare quella sera, ma la neve nel pomeriggio è divenuta pioggia e l’hanno chiamato dalla pizzeria. Ci eravamo messi d’accordo che l’avrei raggiunto là, dopo la fine del suo turno, avremmo cenato e sarei tornata a scuola. Il tragitto non è certo dei migliori a quelle ore.

La lesione spinale, cause e conseguenze

Lesione spinale
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L’andata ricordo di averla fatta guardandomi attorno, di corsa. Nel momento in cui ho raggiunto la pizzeria, mi sono sentita sollevata.

Il ritorno, per evitare eventi spiacevoli, abbiamo deciso di farlo in motorino, insieme. Per terra quel miscuglio di acqua, fango e neve che ci ha fregati e mi ha fottuto il midollo. Siamo scivolati.

Nonostante andassimo piano, siamo scivolati.

È stato un attimo, una successione di azioni: cadere, sbattere con la schiena
sullo spartitraffico, non sentire immediatamente le gambe, lui spaventato che piange, sorridere, cercare di tranquillizzarlo, amarlo. Capire.

Capire che la mia vita si era completamente stravolta, in quella successione di azioni.

Al Pronto Soccorso la perizia è immediata: paraplegia flaccida, lesione midollare completa all’altezza della quarta vertebra dorsale, lussazione della terza vertebra sulla quarta. Tac, risonanza magnetica.
Pressione venosa minima, operabile solo il giorno dopo, con valori più stabili, rischio di non superare l’intervento. I miei hanno la disperazione negli occhi, lui ha addosso qualcosa d’indescrivibile. Vedevo una macchia a forma di cavallo sul soffitto mentre aspettavo, lì sulla barella. Quasi ridevo. Mi sembrava buffo vedere un cavallo.

Dopo aver aspettato che mi addormentassi, i medici consigliano ai miei di andare a casa, ma loro stanno lì, non mi lasciano. Il giorno dopo, l’intervento. Fuori da quella maledetta sala operatoria sono venuti tutti i miei compagni di classe. Hanno aspettato. Hanno aspettato e basta. Non ci sono state parole su quelle scale. Non servivano.

Tre giorni in terapia intensiva, altri quattro in reparto. Facevo domande. Nonostante sapessi, dovevo sentirmelo dire in faccia. Non mi hanno mai detto cosa avessi realmente, restavano sul vago, non rispondevano.

Sono arrivata all’Unità Spinale del “Don Calabria” il 18 marzo; l’ho lasciata esattamente sei mesi dopo, il 18 settembre.
Al primo incontro mi hanno chiesto cosa mi aspettassi. Ho risposto ingenuamente di mettermi seduta e di rimettermi in piedi. È stato lì che ho avuto la conferma: “Di metterti seduta di sicuro, di tornare in piedi, con i progressi della ricerca, te lo auguro”.
È stata la prima volta che ho pianto.

In posti del genere la sofferenza la annusi, la tocchi, la fai tua. È da lì che devi imparare ad afferrare una possibilità di vita completamente diversa, piena di una nuova consapevolezza, di una diversa con sapevolezza. Lo fai in palestra, durante la riabilitazione; lo fai anche solo aprendo uno sportello a cui qualche giorno prima non arrivavi; lo fai riuscendo a spingere la carrozzina per un minuto in più giorno dopo giorno. Lo fai in un
nido, protetto, a tua misura. Il problema è quando si esce.

In quei sei mesi sono comunque andata avanti con lo studio, mi sono diplomata e ho fatto il test per Medicina. Un 91/100 e un’ammissione. Cose che avrei comunque affrontato. Queste sono le cose grandi, quelle che la gente dice che “puoi ancora fare”, come se non lo sapessi già.
Quello che fai in maniera diversa sono le cose piccole. Sono pisciare, sorridere, fare l’amore. È superare un gradino o sedersi sul divano. Questo poche persone lo capiscono e la società di certo non ti aiuta.

È questo che mi fa rabbia. Credono che mettere una rampa risolva qualsiasi problema, ma il punto, in realtà, è creare un mondo “a misura d’uomo” inteso come qualsiasi uomo, sia esso giovane o vecchio, con o senza gambe.

Gli ingegneri che firmano i progetti dovrebbero provare sulla loro pelle cosa significa non poter utilizzare non solo i muscoli delle gambe, ma anche gli addominali, in modo parziale o completo.
Capirebbero in tal modo che una rampa non diventa la soluzione perfetta per i disabili se non ha una pendenza corretta.
Gli autobus di Ferrara, per esempio, città presso cui inizierò il mio primo anno di università, hanno sì la pedana, ma è troppo ripida e salire da soli è pressoché impossibile. Inoltre ho notato che viene indicato come “posto disabili” o “posto carrozzine” un unico posto. Ma se i disabili in carrozzina fossero due su uno stesso autobus, come si risolverebbe la questione?
Salgo io o sali te? Così? Sono queste le pari opportunità?

Credo che le pari opportunità siano strade accessibili a chiunque, trasporti in cui non sei un passeggero speciale, ma semplicemente un passeggero, o ancora un bagno in cui la distinzione sia solo tra uomini e donne. Avere pari opportunità è non avere la H di handicap stampata in faccia o una fascia arancione al braccio, è potersi sedere al cinema senza difficoltà e non essere costretti, eventualmente, a guardare un film in prima fila sulla carrozzina, è andare al bar e poter prendere il caffè al bancone appoggiandoci i gomiti o non dover mangiare mettendosi lateralmente un panino perché la gamba del tavolo centrale impedisce una postura corretta. Pari opportunità è andare in giro senza che tutti ti guardino.

La prima cosa che ho notato dopo aver perso l’uso delle gambe è l’assenza di paraplegici in tv. Il mondo dello spettacolo ci propina modelle con le gambe lunghe tre metri, magre e con le taglie giuste, ma nessun disabile. Avete mai visto una concorrente di Miss Italia in carrozzina? O cieca? O sorda? Avete mai trovato un disabile ai quiz televisivi? O lavorare come attore? La disabilità viene associata a uno stato di salute carente, quindi in una serie tv, in un film, in uno spot pubblicitario il disabile interpreta il disabile, e quella carrozzina, quell’occhio che non vede o quell’orecchio che
non sente non ce li scolliamo più di dosso.

E allora pretendo i benefici, pretendo la pensione d’invalidità, pretendo il posto riservato. Se avessi le medesime possibilità che hanno gli altri, non pretenderei nulla di questo, sarei felice di pagare la retta universitaria intera, di pagare il mio biglietto sull’autobus o parcheggiare in qualsiasi posto.

Sarei felice di trovare una strada senza barriere, una piazza accessibile. Vorrei che i miei non diventassero matti a trovare mille modifiche per la cucina, affinché la possa usare anch’io. Sarei felice di non ricordarmi di essere disabile a ogni gradino.

Ho fiducia che cambi, questa società. Ho fiducia in un nuovo Imagine, come cantava John Lennon. Ma se non alziamo la voce, se ci adagiamo in questi minimi benefici e stiamo zitti, se aspettiamo che sia chi cammina a muoversi per noi, non cambierà niente. Io voglio uscire di casa e sentirmi semplicemente Carlotta, non una ragazza in carrozzina.

You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one. I hope someday you will join us and the world will live as one.
Sono Carlotta Damiani, ho 18 anni e sono paraplegica.